LA BELLEZZA SALVERÀ LA GIUSTIZIA (?) - DI PASQUALE D'AIUTO, AVVOCATO

Pasquale D'Aiuto questa volta ci delizia con un tragicomico spaccato della Giustizia moderna, di come la stessa appaia "brutta" al cospetto del "diritto solenne e chiarissimo" studiato per anni sui libri. L'approssimazione con cui viene oggi amministrata la giustizia è forse anche una della cause del malfunzionamento della stessa; insomma è più facile far funzionare qualcosa che appaia almeno già funzionante. In tal modo l'autore, riprende in chiave Forense la vecchia "teoria delle finestre rotte" di James Q. Wilson e George L. Kelling.

Il Principe Miškin, ne “L’idiota” di Dostoevskij, afferma: “La bellezza salverà il mondo”. Chissà perché, è una vita intera che questo messaggio mi avvince. E, chissà perché, mi martella quando metto piede in un ufficio giudiziario.

Rammento che, la prima volta che vi entrai, rimasi stupefatto dal caos che lo pervadeva. Anzi: che lo governava. Mi domandai come fosse possibile amministrare la Giustizia in quel modo, senza la parvenza di un benchè minimo protocollo per gestire l’utenza, con carte letteralmente in volo sopra le teste dei presenti, giudici indistinguibili dal resto della ressa, vociare altissimo, distanza sociale annullata.

Certo: ero giovane e privo di esperienza. Ma lo strano è che tutti mi sembravano assurdamente a proprio agio! Com’era possibile? Ora, ammettiamo che l’emozione del momento peserà nel ricordo ma, avendo poi nuovamente frequentato quel luogo, direi che si tratta di un’immagine piuttosto affidabile.

Comunque, l’ufficio si trovava in un edificio bruttino, senza stemmi né pompa, senza bandiere né afflato d’autorità, un immobile che tutto poteva sembrare men che meno un luogo in cui si decidesse un pezzetto dell’esistenza delle persone.

Fui sorpreso e rammaricato: davvero quella era la materializzazione del Diritto solenne e chiarissimo che avevo studiato per anni?! In seguito la rassegnazione prevalse, sebbene mitigata dall’impegno a cavare qualcosa di buono dalla mia personale attività, perché tutte o quasi le altre prime volte furono simili: quegli uffici erano brutti, senza ispirazione, dimessi, incolori, vecchi. Crepati, lesionati, scoloriti. Scomodi.

Col tempo, scoprii che le eccezioni erano davvero poche.
Orbene, dentro quelle strutture piuttosto tetre (perché, alla fine, così erano e così sono rimaste) si aggirano avvocati, testimoni, parti in causa, cancellieri, consulenti, commessi e giudici, un pochino tetri pure loro. Fatalmente dimessi, come gli uffici in cui sono costretti a condurre innanzi, ciascuno secondo il proprio ruolo, quel teatro ancestrale che è la Giustizia. Persino i sorrisi ottimistici sfoggiati – sempre meno spesso – dagli Avvocati suonano coraggiosi, per non dir eroici.

Poi, ci si deve vestire: la maggior parte va sul sicuro con cravatte, tailleur, panciotti, decolté, stampe geometriche, zaini e borse sobrie. Altri decidono di scegliere tenute più sportive, rinunciando alla cravatta e scegliendo un paio di jeans con le sneakers. Qualcuno, evidentemente, non vuole stonare con l’ambiente e punta su nippoli, pelucchi e impavidi accostamenti tra quadroni e righetti.

E come dar loro torto? È una questione di coerenza: le porte ridotte ad assi di legno, i fili scoperti, i neon ad intermittenza, le sedie rotte o squarciate, le pile di fascicoli ovunque, le pallocchie di polvere, il grigio imperante nei toni decisi da qualche architetto triste, gli avvisi scaduti da un anno ma assurdamente ancor lì a troneggiare, esigono un comportamento co-e-ren-te. Responsabile. Perché non c’è dubbio, deve trattarsi di direttive impartite dal Ministero: bruttezza, sciatteria, disarmonia. E il Ministero va rispettato. Altrimenti, non potrebbe spiegarsi per quale ragione gli uffici giudiziari siano così ridotti.

Quando, poi, dando retta ad uno sguardo certamente frivolo, basterebbe davvero una mano di vernice, un po’ di stucco, un orologio al muro, una bella pulizia per cambiar faccia all’ambiente – ed ai suoi spaesati e/o eroici visitatori. Magari, staccare dalla parete quel rinvio del dicembre 2017, mettere una mascherina a quell’interruttore, coprire quel filo, tener chiusi quei raccoglitori che esplodono. Archiviare montagne di carte. Organizzare le stanze, le aule e la loro funzione, questa volta senza una benda sugli occhi.

No, tutto questo non può che essere frutto di una precisa volizione del Governo, legata forse – ma qui siamo maliziosetti – al cattivo stato dell’organizzazione generale. Non esiste altra spiegazione. Perché evidentemente, grazie a tali accorgimenti del brutto, sarà più naturale, per i visitatori, non vedere l’ora di ritornare alle proprie case od ai propri studi, accogliere con rassegnazione un rinvio a due anni, scoprire che manca il fascicolo o una produzione di parte, constatare l’assenza ingiustificata di quel consulente o quel testimone, apprendere che quel giorno non si tiene più udienza, imbattersi in un improvviso scaglionamento delle cause del mattino.

Certo, significativa controindicazione di questa volontà del deforme è che dipendenti ed addetti ai lavori scontino minor agio e voglia, se (tanto per dire) le pareti si sgretolano oppure la copiatrice è fuori-uso da settimane. Ma sarà solo un piccolo prezzo da pagare sull’altare dell’Equilibrio del sistema!

Perché questo equilibrio deve essere un metodo geniale, l’idea straordinaria di qualche misconosciuto luminare. Infatti, il brutto non è solo nella struttura, nella disposizione insensata degli spazi, negli arredi fatiscenti e sporchi… no, esso diviene pura esaltazione metafisica della dis-grazia. Ad esempio, nel foglio dei turni degli avvocati appiccicato miracolosamente, con un residuo di scotch, in una intercapedine del muro o su un chiodino residuo di chissà cosa; nella mancanza di carta ed elastici delle cancellerie; nelle vetrate coperte con fogli legati l’un l’altro a formare una barriera contro il sole cocente; nelle porte che grattano sul pavimento; nei pezzi di cartone messi lì ad arte per impedire al getto d’aria del vecchio condizionatore di infilarsi nella schiena, fino alla cintura dei pantaloni, del malcapitato di turno; nell’angustia delle metrature; nella necessità di scrivere sui davanzali delle finestre impolverate – questo serve a non far distrarre gli avvocati: dovessero perdersi nel panorama?! – oppure sui mobili provenienti da qualche ufficio nazista… e chi più ne ha, più ne metta.

Personalmente, credo che l’esempio più eclatante di tale, ingegnosa architettura neo-funzionale sia stato l’A4 ben attaccato alla (grigia, ça va sans dire) parete scrostata (ça va sans dire) in corrispondenza di una presa di corrente, che recitava qualcosa del tipo: “NON TOCCARE, PERICOLO DI MORTE”. Ovviamente, un avviso senza paternità. In un’aula piena di gente. Posso dedurre, tentando di connettermi all’ispirazione del genio misconosciuto di cui sopra, che il simbolismo consistesse nell’indurre il lettore al timore parossistico della Causa ed all’accettazione mistica della Sentenza e del Mistero della Procedura.

Eppure io, che evidentemente sono un tipo terra terra, continuo a pensare si possa fare come sembrerebbe normale, praticando il banale buon senso e la sovrastimata logica. Ma è tutta colpa del Principe Miškin (che, del resto, era un ingenuo), di quel plagio letterario che mi conduce, evidentemente, a sbagliarmi di grosso, visto che la realtà della Giustizia è un continuo, inesorabile inno al brutto! Sì: esiste qualche merito necessario nel deforme, che io ignoro perché sono un superficiale.

Quindi, certamente sono in errore se penso che la bellezza – intesa in senso lato, come spero di aver ben illustrato – possa fare un gran bene al mio comparto, che è non esattamente uno dei più insignificanti in un Paese che voglia dirsi civile. Ad esempio – e dimentico volutamente le opportunità del mondo telematico – che mantenere il decoro degli ambienti induca istintivamente tutti, habitué e non, ad un comportamento migliore; assicurare una costante temperatura gradevole consenta al personale di lavorare con maggiore agio ed efficienza; pagare qualcuno perché trascriva le deposizioni orali ne potenzi la genuinità; dotare i bagni di sapone e carta li renda realmente fruibili, magari per chi deve usarli più spesso per l’età o qualche malanno; fissare le udienze ad orario dedicato o, almeno, per tipologia (es. comparizione, conferimento d’incarico, prova testimoniale) ottimizzi il tempo.

Senza dubbio prendo una sonora cantonata, affermando che issare le bandiere d’Italia e d’Europa alle spalle del Giudice incuta un minimo di riflessione sul proprio ruolo; incoraggiare un abbigliamento consono alla funzione illumini la coscienza del compito; disporre qualche sedia e qualche tavolo in più comporti una maggiore naturalezza nel redigere il processo verbale; sottoscrivere gli avvisi ne determini l’attendibilità e suggerisca all’utenza che esiste un certo rispetto nei suoi confronti; installare bacheche favorisca l’affissione di locandine o inviti a carattere culturale; consentire l’acquisto di marche da bollo in loco permetta il perfezionamento immediato delle istanze ed eviti passeggiate indesiderate, alla pioggia o sotto la canicola; chiudere i raccoglitori o le scaffalature contenenti i faldoni doni un aspetto più ordinato all’ambiente e prevenga lo smarrimento o la sottrazione di documenti; rispettare l’orario di udienza contribuisca al rispetto reciproco tra giudici, avvocati e parti… ed altre amenità che, per l’appunto, sono solo quello: amenità, fantasie.

Sbaglio, dunque, se penso che la Bellezza salverà (salverebbe) la Giustizia. Sbaglio?

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